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Parla Antonio Lenzi, uno dei fondatori di A.N.NA, l’Associazione nazionale dei navigator, per spiegare i motivi che hanno spinto i navigator a dar vita a questa associazione. Lenzi fa il punto sugli elementi di forza e di debolezza del reddito di cittadinanza. Sulla narrazione, non sempre clemente, offerta dai media sul lavoro e il ruolo dei navigator afferma “c’è stata troppa strumentalizzazione politica. Questo ha impedito qualsiasi analisi laica sulla misura”. E sul futuro dice “siamo un capitale umano formato. Sarebbe un peccato non valorizzarci”
Lenzi perché avete deciso di fondare A.N. NA? Non vi sentite abbastanza rappresentati dal sindacato?
Credo che A.N.NA, che è un’associazione, e il sindacato non siano due realtà antitetiche ma complementari. Il sindacato ha una capacità di rappresentanza e di negoziazione al livello nazionale, che non ha l’associazione, mentre sconta delle difficoltà quando si tratta di capire e intercettare le problematiche, anche strettamente operative, dei singoli territori. Inoltre noi non siamo dipendenti, ma co.co.co, lavoratori atipici, e con noi il sindacato ha sempre avuto problemi di rappresentanza, per il semplice motivo che non possiamo eleggere le Rsu. Ma c’è anche un altro aspetto.
Quale?
Serviva un’associazione che ci tutelasse e che rispondesse in modo compatto alla stampa. Questo non è un compito e una prerogativa del sindacato.
I media non sono sempre stati teneri con voi navigator. Secondo lei quale elemento ha reso la narrazione del vostro lavoro e della vostra funzione così poco clemente?
Il problema di fondo, fin dall’inizio, è stata la strumentalizzazione politica, sia da parte di chi era favorevole alla nostra figura sia da chi non lo era. Sicuramente la campagna di aspettativa non ci ha aiutato. Questo ha impedito qualsiasi dibattito laico sulla misura. Un altro punto è il contesto nel quale operiamo, che poche volte viene preso in considerazione.
Si spieghi meglio.
Se analizziamo in modo acritico i numeri, senza appunto contestualizzarli, si va poco lontano. Chiunque si cimenti nel campo delle politiche attive deve fare i conti con problematiche strutturali, che richiedono tempo per essere superate. C’è sempre stato un deficit di investimenti e infrastrutture, anche digitali. Con il reddito di cittadinanza c’è stato un investimento di risorse significative, questo è inutile negarlo, ma la natura stessa dell’investimento richiede tempo e una visione lunga, cosa che sin qui non c’è stata.
Qual è il tallone di Achille del reddito di cittadinanza?
C’è poco coordinamento tra i vari attori istituzionali, come Inps, Anpal, Regioni e così via. Questa mancanza di comunicazione genera ritardi. Sappiamo che le politiche attive sono in mano alle regioni. Questo fa sì che ci siano venti sistemi diversi che non interagiscono tra di loro. Io lavoro su Milano, posso sapere quelle che accade in Lombardia, ma non ho accesso ai dati della Sicilia. Questo è un grosso problema perché causa molta frammentazione e disomogeneità.
Dove, invece, vede dei punti di forza che andrebbero implementati?
Come prima cosa il sostegno dato dalla parte passiva del reddito di cittadinanza non è una cosa da poco, visti i tempi. C’è poi il collegamento con la politica attiva. In questa misura c’è la volontà di iniziare un percorso con il percettore, che non si riduce esclusivamente alla parte lavorativa, - anche se questo non è un aspetto minoritario – ma che mira a un suo reinserimento nella società, che cerca di eliminare quel senso di esclusione che molti hanno. Ritengo che si debba dare questo valore alla parola cittadinanza. C’è una dimensione propositiva, di attivazione della persona in carico, che non era presente nel reddito di inclusione, dove le persone venivano subito dirottate agli assistenti sociali, anche chi non ne aveva bisogno, minando anche il lavoro degli assistenti stessi.
Mi può descrivere, a grandi linee, la platea dei percettori?
Ci troviamo a gestire una platea di 3 milioni di persone, ultra quarentenni, con bassa scolarizzazione, quinta elementare o terza media, un bagaglio di competenze molto ridotto, necessitano di una alfabetizzazione informatica e vengono da carriere lavorative discontinue. Per molti di questi non è oggettivamente facile avviare un percorso che li possa rendere occupabili. Ma già renderli autonomi nel cercarsi un lavoro è un primo passo molto importante. Ovviamente ci sono anche quelli meno propositivi, che guardano unicamente a incassare l’assegno.
Il covid come ha inciso sul vostro lavoro e sul percorso dei percettori?
Vorrei subito dire che anche con il covid abbiamo sempre lavorato da remoto, con tablet e cellulare aziendali. Probabilmente ci siamo dimostrati molto più flessibili e capaci nell’adattarci alla nuova realtà. È ovvio che la pandemia ha ridotto drasticamente le possibilità lavorative. Alcuni settori, come la ristorazione e il turismo, sono stati colpiti più di altri. Nella mia esperienza mi confronto molto con persone che hanno lavorato in bar e ristoranti. In altri comparti, come l’agricoltura o le pulizie/sanificazione, c’è stato un maggior dinamismo. Un altro grave problema è stata la paralisi del sistema formativo. È impensabile per chi non sa gestire le email o word seguire un percorso formativo in piattaforma.
Come sono i rapporti con le aziende?
Abbiamo iniziato ad avere rapporti con le aziende poco prima dello scoppio della pandemia, costruendo banche dati, e ora i legami si stanno progressivamente consolidando. Ovviamente questo processo non sta avvenendo con la stessa uniformità in tutti i territori.
Le agenzie interinali si possono definire un vostro competitor. Sono più brave di voi nel fare questo lavoro?
Credo che non sempre si conoscano i servizi che il pubblico può offrire. Bisogna inoltre capire qual è il rapporto tra pubblico e privato. È ovvio che rispetto al privato, i tempi del pubblico sono più lunghi e questo scoraggia le aziende.
Quali aspettative avete per il futuro?
Ovviamente ci auguriamo, nell’immediato futuro, una proroga del contratto e, in prospettiva, un processo di stabilizzazione. Quello che noi vorremmo è che venisse riconosciuto appieno il nostro lavoro e l’impegno che quotidianamente mettiamo. Siamo 2.700 laureati magistrali, con un’età media di 35 anni e un bagaglio di competenze e lavorativo consolidato. Molto spesso si parla di svecchiare il personale della pubblica amministrazione, di inserire competenze digitali, perché non cogliere questa occasione, valorizzando il capitale umano che già c’è ed è stato formato, indirizzando, magari, noi navigator anche su altri aspetti delle politiche attive? Penso che sarebbe un peccato non farlo.
Tommaso Nutarelli