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Dice Giuseppe Gherzi che la Marcia dei Quarantamila segnò una svolta positiva nelle relazioni industriali italiane: al di là dei vinti e dei vincitori, che pure come è noto ci furono, al di là di Torino, dove avvenne, quella iniziativa segnò una presa d'atto di responsabilità da parte di tutti i soggetti, sindacati e imprese, in un periodo molto complicato del nostro paese. Nell'80 si era nel pieno del terrorismo, e Torino, come le altre città industriali del nord, ne era uno degli epicentri; la tensione sociale era fortissima e quella politica non da meno, col governo periclitante e poi dimissionario. La vertenza Fiat si innestava in questo quadro. Gherzi in quel periodo era responsabile dell'area sindacale all'Unione Industriali di Torino, dove era arrivato da giovane avvocato nel 1977, e dove sarebbe rimasto per quindici anni, passando poi a dirigere l'Unione stessa, carica mantenuta fino a settembre scorso. Quarantatre anni ininterrotti, in un osservatorio come minimo privilegiato. Perché Torino, quarant'anni fa, era ancora la capitale dell'industria, e dunque la culla delle relazioni industriali: ''quello che si faceva a Torino, veniva osservato da tutto il paese, e spesso copiato", afferma Gherzi.
Così andò anche per la vertenza Fiat? diventò un modello?
Sicuramente segnò una svolta. Che ebbe influenza per molti anni. Faccio un passo indietro: all'epoca le relazioni industriali erano uno snodo fondamentale, l'industria era fiorente, le imprese avevano moltissimi addetti, e la loro gestione, l'organizzazione del lavoro, era il cuore dell'organizzazione di una azienda. Torino era la capitale industriale del paese, e dunque il nostro sistema di relazioni industriali faceva scuola. Quel che andava bene a Torino, poi veniva ''copiato'' da altre aziende nel paese, quel che nasceva qui veniva spesso anche trasferito nei contratti nazionali.
Come ricorda quel periodo? lei lo ha vissuto in prima linea, nella trincea dell'Unione Industriali.
Intanto, occorre ricordare che il clima di quegli anni, a Torino, come in tutta Italia, era molto pesante. I 35 giorni di blocco alla Fiat si inserivano in un contesto quasi di guerriglia, si andava ben al al di là delle manifestazioni ''civili''. Il clima di odio e violenza di quel periodo permeava anche le relazioni industriali. Per dire: quando tenevamo una trattativa nella sede unione industriali, spesso in notturna, come si usava allora, la mattina dopo trovavamo volantini che riportavano esattamente frasi pronunciate dai dirigenti Fiat nel corso della riunione. Era un clima molto, molto pesante.
La trattativa fu dura, partì coi licenziamenti, come è noto, ma poi la Fiat decise di non dare corso, di modificare i licenziamenti in cig a zero ore. Perché?
Fu una scelta strategica dell'azienda: c'era una crisi di governo, una tensione sociale molto forte del paese, e si scelse di non spingere oltre. Fu una prova di responsabilità dell'azienda.
Che i sindacati però non accettarono
No. Non si accontentarono del ritiro dei licenziamenti. Probabilmente pensavano di poter stravincere, e dunque decisero di portare avanti la battaglia. Ma ci fu la reazione della società civile.
La marcia, intende?
Non tanto la marcia in se'. Era una manifestazione nata all'interno della Fiat, ma non fu solo quello: ebbe la societa civile a condividerla, anche idealmente. La citta intera era esasperata. Per questo quando il corteo partito dalla Fiat attraversò la citta trovò il consenso immediato e, devo dire, inaspettato, della popolazione.
Nessuno si aspettava quella folla, in effetti. Certo non il sindacato, che per l'appunto, dopo quella marcia, capì che la partita era persa.
No, e nemmeno la Fiat se lo aspettava. Cose che nascono dal basso, sentimenti che a volte non si sospettano ma che cambiano le cose di colpo. Faccio un esempio contemporaneo, quello della manifestazione pro Tav che si è tenuta a Torino un paio di anni fa. Ci si aspettavano tre, quattromila persone, ne sono arrivate trentamila. Un segnale inequivocabile del reale sentimento di una città che nemmeno gli organizzatori si aspettavano.
E nell'80 questo cambio la storia. Il sindacato che dopo la marcia dice alla Fiat "scrivete voi l'accordo". Frase ormai iconica. Ma andò proprio così?
Si, andò così. Il sindacato si rese conto che non aveva saputo leggere lo spirito del tempo, non aveva capito che era cambiato il vento. Aveva cercato di tirare troppo la corda, e alla fine si era spezzata. Per cui dissero all'azienda quella frase. E si fece subito l'accordo.
E come è stato il "dopo", come sono proseguite le relazioni tra il sindacato sconfitto e la Fiat, l'industria, vincitrice su tutta la linea?
Chi aveva vinto, non ne ha abusato. Era, come le ho detto, un momento difficile per tutti. Le migliaia di persone in cassa a zero ore aprivano comunque un orizzonte di enormi problemi, anche per l'azienda. Tutta la città, all'epoca, girava attorno alla Fiat, e quella cig a zero ore si ripercuoteva su tutte le attività, sull'indotto, su centinaia di altre aziende. C'era la piena consapevolezza di tutti, anche di chi aveva vinto, che occorreva gestire il tutto con il massimo equilibrio.
Le relazioni industriali proseguirono in che clima, quindi?
Be', avevano sicuramente cambiato cliché. Non solo in Fiat, ma in tutto il sistema industriale, il ruolo fortemente rivendicativo del sindacato si era attenuato, si iniziò a ragionare in una logica diversa, di maggiore condivisione e partecipazione. E questo, da allora in poi, cambiò moltissimo le relazioni industriali italiane. Per questo dico che fu davvero una svolta.
Questo ovviamente dal punto di vista dell'azienda: dal punto di vista sindacale quella dell'80 viene considerata una sconfitta. La peggiore.
Lo fu senza dubbio nei termini che le dicevo poc'anzi: il sindacato scoprì all'improvviso che non aveva saputo capire, sentire, e dunque interpretare, il clima nel paese. Ma seppe anche approfittare di questo errore per fare un passo avanti verso una visione piu' aderente ai tempi.
Oggi moltissime cose sono cambiate, rispetto all'80. Torino non è più la capitale dell'industria, la Fiat ha cambiato nome e non solo, la stessa industria, la manifattura, perno dello sviluppo del paese, è ridotta nei numeri e nel peso. Questo come ha influito sulle relazioni industriali?
Quelli che erano i punti di riferimento di allora sono scomparsi, la gestione di grandi numeri di personale è alle spalle, lo spazio della manifattura viene rosicchiato dai servizi, dal processo di terziarizzazione. Quel modello di relazioni industriali non è piu' applicabile, è obsoleto. Oggi alle parti sociali si chiede nuovamente di saper 'leggere i tempi', capire come adeguare i propri rapporti alle grandi mutazioni del sistema produttivo. Che deve essere interpretato in un modo meno di massa, in un mondo dove prevale l'individualità rispetto alla collettività.
In altre parole?
Oggi, per esempio, si fa sempre più fatica a gestire un contratto nazionale tradizionale. In questi decenni il sindacato ha fatto un grande e ottimo lavoro per far crescere i diritti, la consapevolezza nella classe operaia, le garanzie e le tutele. Ma questo è il passato. Oggi occorre andare di più verso la 'micro attenzione', i contratti nazionali general generici hanno fatto il loro tempo. Occorrono contratti cornice, da un lato, e un lavoro di contrattazione vicino alle singole aziende dall'altro. E aggiungo, anche una contrattazione sul territorio: non rivendicativa, ma che sappi cogliere le diverse esigenze e specificità di un territorio.
Ma rispetto all'Ottanta abbiamo anche un altro sostanziale cambiamento, la 'disintermediazione'. Ogni tanto qualcuno si chiede se abbiano ancora senso, utilità, peso, organizzazioni come i sindacati e la stessa Confindustria. Lei che ne pensa?
Io penso che servano ancora, e serviranno sempre. Cambiando, come cambiano i tempi. Faccio l'esempio di Confindustria: una volta il ''core business' era l'area sindacale, le aziende si iscrivevano all'associazione perché le rappresentava da questo punto di vista. Oggi il ruolo della confederazione è piu' quello di rappresentare le istanze delle imprese legate a temi come il fisco, la riforma della burocrazia, l'internalizzazione, gli ammortizzatori sociali. Ma questo non riduce il peso, anzi: il nostro tessuto produttivo è così frammentato in una miriade di piccole imprese che nessuna forza politica potrebbe raggiungerle tutte, rispondere a tutte le esigenze. Per questo occorrono i corpi intermedi. Che continureanno sempre ad avere un ruolo fondamentale, anche se in un'ottica diversa.
Nunzia Penelope