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La posta in gioco


Ci giochiamo molto come Paese e come individui. Molto del nostro futuro sarà determinato da come dimostreremo di saper utilizzare più di 200 miliardi erogati dalla "perfida" Europa.

Peccato che il dibattito su questi temi non “voli alto”, che ci si limiti a una lista della spesa di progetti già incagliati in precedenti progetti, come se fossero delle matrioske russe, partoriti da singoli ministeri senza una visione d’insieme che definisca le priorità.

Un dibattito che, nemmeno lontanamente, ha voglia di lanciare una sfida “allo stato delle cose esistenti” invece di uno che abbia al centro la crescita e non la mera sopravvivenza di trincee nelle quali le molte corporazioni da molto tempo tengono bloccato l’intero Paese.

Non si tratta solo di discutere quali investimenti fare. Si tratta di fare scelte di fondo che siano in grado di consentire all’Italia, appena l’incubo della pandemia si dissolverà, un tasso di crescita annuo del PIL non inferiore al 2% medio, e questo per almeno un quinquennio.

Senza questo scenario di riferimento il peso del debito pubblico, impossibile da ridurre agendo prevalentemente sui tagli di spesa, schiaccerà ogni riforma, e condannerà il Paese ad un declino, forse lento, certo inevitabile.

Ovviamente, gli investimenti in infrastrutture (logistica, trasporti, digital divide e istruzione) sono importanti e certamente il loro “moltiplicatore” potrà consentire un sostegno allo sviluppo. Per inciso, sulla sanità, trovo raccapricciante il dibattito sull’utilizzo o meno dei fondi a disposizione col  MES.

Tuttavia, a mio parere c’è un nodo strutturale che va affrontato con decisione: quello di una radicale riforma fiscale, non si tratta solo di rivedere le aliquote fiscali IRPEF, si tratta di avere il coraggio di individuare un diverso equilibrio tra le imposte sul lavoro e quelle sulla rendita e sui consumi.

Solo qualche esempio per rendere evidente quale sia il divario tra noi ed altri paesi europei:

In Italia l'aliquota marginale per i redditi tra 28.000 e 55.000 euro è del 38%.

In Francia del 30% per quelli compresi tra 27.500 e 74.517 euro lordi.

In Germania del 14% per i redditi da 9.408 e 57.051.

In Spagna del 30% per i redditi compresi tra i 20.200 e 35.000.

Questo vuol dire che un lavoratore dipendente oppure pensionato o autonomo che denuncia un reddito di 30.000 euro lordi annui, pari a 2300 euro lordi al mese (30.000:13) paga in Italia una aliquota marginale del 38%, in Germania del 14%, in Francia e Spagna del 30%.

Secondo me c'è qualcosa che non torna, voi che ne dite?

Non si può pretendere alcun rilancio dei consumi interni con questa distorsione fiscale che pesa soprattutto sui redditi di lavoro e senza rilancio dei consumi interni inutile sperare in una crescita robusta e costante nel tempo.

Anzi si rischia un paradosso economico che gli economisti Keynesiani conoscono molto bene e che viene chiamata la “trappola del risparmio”.

Si tratta della propensione, generalizzata, a mettere i soldi sotto il materasso, scusate la banalizzazione, invece che spenderli in consumi che a loro volta generano reddito.

Questa trappola è innescata anche quando il “reddito spendibile” si riduce rispetto al reddito lordo percepito.

In questo modo la spirale meno consumi, più risparmio privato, produce recessione non crescita.

E non c’è nessun reddito di cittadinanza o quota 100 che potrà compensare questa tendenza, anzi.

Dove trovare le risorse per avviare una cosi radicale riforma fiscale? Nessuno può ragionevolmente pensare di attuarla in pochi anni, ma la direttrice deve essere chiara fin da subito.

Si tratta di ridurre significativamente il prelievo fiscale dei lavoratori con reddito medio tra 30.000 e 55.000 euro lordi annui.

Per poter fare questo occorre seguire tre direttrici:

1) Utilizzare il Recovery Fund per investimenti strutturali e dirottare le risorse che sarebbero state impiegate dal bilancio statale per accompagnare la riforma fiscale anzidetta.

2) Spostare prelievo fiscale dal lavoro alla rendita, con cautela ma senza tentennamenti (la patrimoniale non è una parolaccia)

3) Rimodulare con decisione le aliquote IVA non per ridurre quelle più basse (inutile fare demagogia) ma per rendere strutturale una riduzione delle stesse sulle attività prestate. Ha poco senso mantenere l’aliquota IVA al 20% su ogni lavoro di ristrutturazione se poi si devono agevolare gli stessi attraverso benefici di imposta eccezionali come il ristorno al 110% delle spese di ristrutturazione degli edifici.

Questi interventi devono drenare risorse per avviare una profonda revisione delle aliquote IRPEF senza la quale i consumi ristagneranno e la spinta all’evasione sarà sempre elevata.

Una riflessione per concludere.

In Italia il 46% dei contribuenti IREF, dichiara redditi compresi nei primi due scaglioni fino a 28.000 euro, pagando una aliquota del 23% fino a 15.000 euro e del 27% fino a 28.000, versando al fisco 4,32 miliardi (meno del 5%) di tasse sul reddito per le persone fisiche su un totale di 164,7 miliardi mentre i restanti 160,38 vengono prelevati dai redditi sopra i 28.000 euro lordi annui.

Questi dati da soli testimoniano di un paese prigioniero di approssimazione e demagogia, incapace di fare scelte coraggiose non per distribuire le scarse risorse esistenti ma per aumentarle.

Luigi Marelli


07 Gennaio 2021
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