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L’idea di un intervento del sindacato per contrastare la povertà affascina Bruno Manghi, grande sociologo, a suo tempo sindacalista a fianco di Pierre Carniti. E lui crede che il sindacato italiano abbia una chance in più per riuscire in questo compito, perché ha a disposizione le centinaia di migliaia di persone che sono associate ai sindacati confederali dei pensionati. Una forza d’urto importante, che potrebbe fare la differenza. Comunque, non si partirebbe da zero, sia perché il sindacato italiano ha sempre svolto interventi importanti di carattere sociale, come dimostra l’epopea delle 150 ore, sia perché molte strutture esistono già, ma solo nei comuni fino a 10mila abitanti, nelle piccole città. Nelle metropoli la battaglia è diversa, l’intervento più complesso.
Manghi, è giusto che il sindacato si impegni a fondo nella battaglia contro la povertà?
La lunga storia del sindacato è costellata da interventi delle categorie a difesa degli emarginati. Come l’intervento negli Stati Uniti dei sindacati industriali a favore dei braccianti californiani. Ma questo è solo un esempio, di fatti concreti ce ne sono stati tantissimi. Ma io credo che oggi in Italia l’intervento sulla povertà, vecchia o nuova non mi interessa, abbia una chance in più.
Quale chance?
Quella che ci viene dal fatto che noi siamo il paese che in Europa ha il più forte associazionismo della terza età. Le organizzazioni Cgil, Cisl e Uil dei pensionati sono immensi depositi di forza e intervento, capaci di centinaia di migliaia di iscritti, non necessariamente ex iscritti al sindacato, che sarebbero disponibili a operazioni sul territorio di contrasto alla povertà. Questo già avviene nei comuni con 10mila abitanti e nelle piccole città, dove le leghe dei pensionati hanno una forte vita associativa. Diversa la situazione nelle metropoli, dove il sindacalismo si esprime come un servizio. Ad alto livello di efficienza, beninteso, ma un conto è prestare un servizio individuale, un altro è associare per esercitare un’azione collettiva.
Quindi gli strumenti per combattere la povertà ci sono.
Sì, il sindacalismo italiano, che ha la caratteristica di essere allo stesso tempo categoriale e territoriale e ha contemporaneamente una folta rappresentanza della terza età, è nella condizione, se vuole, di agire con la massima efficacia in questo campo. Ha a disposizione centinaia di migliaia di volontari che vogliono intervenire, vogliono creare un argine alla disperazione. Ma è necessario organizzarli in maniera collettiva, deve esserci una sede dove discutere, non puoi limitarti a distribuire dei volantini. E questo nelle città è più difficile.
Può non essere facile intervenire in questa direzione.
Devi cominciare, e allora puoi avere subito dei risultati, non fosse che perché diventi automaticamente interlocutore di altre forme di volontariato. Ma, certo, bisogna cambiare il modo di organizzare questa terza età, sapendo che la situazione poi evolve anche abbastanza rapidamente. Noi nelle periferie siamo partiti da un volontariato prevalentemente ultrasessantenne, che si è attestato e poi è cresciuto. E quando il movimento si rafforza arrivano anche i giovani e perfino un piccolo professionismo, che non guasta, anzi a un certo momento è assolutamente necessario.
Un compito difficile per il sindacato?
No, ma deve sapersi riconoscere come parte integrante del terzo settore. L’esperienza non manca, ripeto, interventi di carattere sociale il sindacato ne ha fatti a bizzeffe, basta pensare all’epopea delle 150 ore, una forma di lotta dura all’emarginazione culturale. Bisogna avere la forza e la determinazione di mettere insieme la propria gente, utilizzando questo enorme deposito, il volontariato, che non si esprime quanto potrebbe, specie nelle grandi città. Ma la prima cosa è leggere a fondo questo fenomeno, altrimenti è tutto più difficile. La parola povertà di per sé è miserella, bisogna sapere di cosa parliamo. Bisognerebbe usare tecniche più raffinate, per esempio leggere la povertà con le tecniche dell’epidemiologia. Come misuri lo stato di salute di un territorio dal punto di vista sanitario, così devi farlo sul piano sociale. E devi farlo con grande attenzione perché il magma povertà è cangiante. Lo abbiamo visto nel corso di questa pandemia. I poveri della seconda ondata sono stati sensibilmente diversi da quelli della prima ondata.
Quindi il sindacato deve dotarsi di strumenti diversi da quelli usati in passato?
Deve abituarsi a essere presente in un mondo diverso, che deve conoscere bene. Del resto, tutti lo fanno. Anche la Caritas negli anni è diventata più scientifica, i suoi interventi sono diventati più numerosi, ma soprattutto diversi, e anche le grandi istituzioni laiche non agiscono diversamente. La Croce verde e la Croce rossa, per esempio, fanno cose enormi, mica hanno solo le ambulanze. Muovono centinaia di migliaia di persone. E il sindacato, che ha le stesse persone che fa? Sta fermo? Ha in mano strumenti importanti che non usa appieno.
Pierre Carniti, che ha sempre avuto una grande attenzione agli equilibri sociali si sarebbe gettato in questa avventura?
Sì, per indole certamente. Anche se la cultura di Pierre era carata su una causa specifica della povertà, la disoccupazione, che combattevamo con strumenti diversi.
Massimo Mascini